Il campione di corsa in montagna racconta le soddisfazioni e i successi della sua lunga carriera, e come si sia evoluto nel tempo il suo rapporto con la vittoria.
Ciao Marco, grazie per essere qui con noi.
La tua è una carriera lunga fatta di tanti successi, ma quali sono le vittorie che consideri più importanti?
Allora, diciamo che la mia storia sportiva si diversifica in base ai decenni. Ci sono vittorie che reputo molto importanti nella mia prima fase di atleta, quando facevo corsa in montagna, il Mountain Running classico, che sono gare più corte, e lì ho vinto i campionati mondiali. E poi la fase da atleta più maturo, l’ultima parte della mia carriera, e quella è fatta di skyrunning e un po’ di trail running.
Però, se devo sceglierne una, la vittoria che forse mi piace di più ricordare è quella dell’ultimo campionato mondiale di corsa in montagna che ho vinto, nel 2007, che è stato forse il punto più alto della mia carriera, la gara più vicina alla perfezione che sento di aver corso fino ad ora.
Corsa di montagna, skyrunning, ultra trail.. Com’è il tuo rapporto con ognuna di queste discipline?
Fin da piccolo ero appassionato di montagna e discipline outdoor, il mio scopo era rimanere il più possibile all’aperto, in ogni modo possibile, con la corsa o con lo sci.
A Bormio, dove vivo, lo sci è sempre stato considerato uno degli sport per i ragazzi e i giovani, motivo per cui, per me, è stato quasi un “obbligo”, una cosa normale iniziare con questa specialità, per poi arrivare a fare altro.
Mi sono appassionato al mondo delle attività outdoor e, in particolare, a quello dell’alpinismo, andando in montagna a camminare con mio padre e mio cugino, che è stato un alpinista abbastanza famoso, ha scalato cime famose dell’Himalaya, il K2, l’Everest.
Quindi diciamo che il mio approccio allo sport outdoor è sempre stato genuino e spontaneo, non ne ho uno preferito.
All’inizio mi piaceva molto lo sci di fondo ma con il tempo, proprio per il fatto di non aver mai ottenuto dei risultati, l’ho un po’ accantonato, avvicinandomi ad altre discipline, come la corsa di montagna.
E con questa che è la tua disciplina prediletta, la corsa in montagna, sono state tante le soddisfazioni?
Sì, nella prima parte della mia carriera le vittorie le vivevo in modo molto amplificato, mi davano il senso di essere riuscito a fare qualcosa di importante, ne ero soddisfatto. Poi non è che siano andate diversamente le cose, però è logico che non era più così importante vincere, non gli davo l’importanza che gli davo prima, nella prima fase della mia carriera.
Vincere diventa quasi una normalità, è il tuo lavoro, quello che devi fare e ti viene bene. Sei contento quando vinci ma forse è la rabbia o la tristezza di quando non riesci a rendere al massimo la sensazione più forte che provi poi, quando magari hai dato il massimo ma non hai ottenuto il risultato che volevi.
Le vittorie che ho ottenuto quando ero giovane, a diciassette anni, sono diverse da quelle ottenute dopo, a trentacinque o quaranta, è chiaro che sono sempre belle, ma sono più belle quelle che hai da giovane perché è tutto nuovo e stimolante.
Non ci si abitua mai davvero a vincere, è sempre bello, ma non dai più un così grande peso alla vittoria come quando sei giovane, e questo vale anche per la maglia azzurra: la prima non si scorda mai.
C’è stata quindi un’evoluzione nel tuo percorso, sia a livello di approccio sportivo che a livello umano.
Cosa ti ha regalato la tua esperienza da atleta professionista?
Quello che mi ha insegnato, attraverso le sconfitte più che le vittorie, è il fatto di essere pronto ad ogni evenienza, anche quando le cose non vanno bene, e a rimettersi in piedi, a lottare. Logico che da una vittoria non impari molto, impari di più da un infortunio che ti tiene fermo mesi, o da situazioni non troppo positive. In quel caso diventa poi facile traslarle nella vita quotidiana, e quando le cose non vanno bene riesci a trovare il buono per tornare a pensare positivo.