Il campione, plurivincitore del Tor des Gèants, si racconta e ci svela i suoi piccoli riti, le forme di meditazione e i segreti per mantenere la lucidità durante gare estreme e impegnative come il Tor.
Ciao Franco, grazie per dedicarci del tempo.
Iniziamo subito con una domanda a bruciapelo.
Quando corri, la vivi come una forma di meditazione? Riesci a liberare la mente?
Sì, è proprio come un viaggio in te stesso.
In un mondo caotico come quello in cui viviamo oggi, con telefonini, macchine, caos, traffico per venire in ufficio, mail da guardare, il Tor diventa una settimana nella quale ti distacchi dal mondo, è un viaggio in te stesso, hai tempo per meditare, per ragionare e fare i tuoi riti.
Io ad ogni Tor ho i miei riti, ad ogni villaggio che attraverso ho i miei piccoli riti segreti, le mie abitudini, che so solo io. È veramente un viaggio da solo, anzi, in compagnia di te stesso.
Poi quando arrivi in un villaggio, in una base vita, trovi quei dieci tifosi, o duecento in alcuni casi, e vivi un momento di festa in cui ti cali nell’euforia, però dopo dieci minuti sei ancora tu, da solo, con le tue scarpe e il tuo zainetto, immerso completamente nella natura, in cui l’unico rumore- io non uso cuffie, non ascolto musica- è quello della natura.
Non ci sono più colazione, pranzo e cena, ma ci sono solo i pasti che devi ricordarti di fare, perché ti dimentichi di mangiare quasi, non tieni conto dell’ora e del tempo, è veramente un viaggio in cui ti distacchi dalla realtà.
Però bisogna sempre mantenere la lucidità.
Quando parlo di “lucidità” intendo che è necessario esercitare e mantenere la concentrazione.
Ora ti faccio un esempio, di allucinazioni ce ne sono tante durante il Tor, soprattutto sulle creste, sulle montagne, quando corri a 3000 metri.
E tu mi dirai: “Che lucidità può avere una persona in preda alle allucinazioni?”.
Ma io in quel momento sono estremamente lucido, mi ricordo ogni momento e addirittura so che quelle che sto vivendo sono allucinazioni, imparo quasi a conviverci e le uso per affrontare al meglio quello che sto facendo.
So che sono tre giorni e tre notti che non dormo, so che il mio fisico non è più quello del primo giorno e quindi cerco di adattarmi, per rendere al massimo, rendere efficiente la mia progressione nella gara anche se non sono più al 100%.
Però la mia testa è sempre lì: focalizzata sull’obiettivo, per cercare di godermi appieno questa avventura e arrivare il prima possibile a Courmayeur, al traguardo.
Prima accennavi ai tuoi piccoli riti, che sai solo tu.
Puoi condividerne uno con noi?
Beh posso raccontarvi la mia prima vittoria al Tor, nel 2014.
Quel rito posso raccontarlo perché non lo faccio più, perché gli altri, quelli che faccio ancora, non vanno svelati.
Quell’anno mi ero messo in testa che dovevo stare in una bolla. Avevo fatto tanta meditazione, con un tailandese, che mi aveva aiutato davvero tanto in quel percorso.
Un rito che questo mio maestro mi aveva suggerito era quello di non farmi succhiare energia dagli altri, dovevo essere io a prendere l’energia dalle persone che incontravo.
Uno dei tanti escamotages per non farmi succhiare l’energia era questo: dovevo evitare di rispondere alle domande di qualsiasi persona incontrassi, dovevo rispondere alle domande altrui facendo a mia volta un’altra domanda.
E questa cosa ha fatto impazzire due miei amici che ho incontrato a metà percorso.
Continuavano a chiedermi: “Ma come stai?” e io rispondevo con un’altra domanda, e loro mi chiedevano poi se li avessi riconosciuti, e io non potevo rispondere di sì, quindi facevo un’altra domanda.
Alla fine i miei amici sono tornati a casa increduli, pensavano fossi fuori di testa, che non avrei superato la notte al Tor.
Hanno chiamato i miei genitori dicendo loro di farmi ritirare, perché lasciarmi correre in quelle condizioni risultava pericoloso.
In realtà era tutta una mia cosa interiore, un mio rito segreto per affrontare la gara, ma in quel momento non potevo dirglielo.
Ma dopo la gara gliel’hai detto, hai svelato il tuo segreto?
Dopo sì, ma non ci credevano.
Ancora adesso sostengono che non fossi lucido in quel tratto di percorso. Era un tratto molto selvaggio, dove per dieci-dodici ore non vedi nessuno.
Questo rito comunque era carino e curioso, non so se sia servito, ma quell’anno lì ho vinto, non so se grazie a questo mio rito.
In ogni caso è stato un modo per tenere occupata la mente durante tutti quei km.
Era anche una cosa carina, perché in quei momenti dentro di me ridevo, era diventato un po’ un gioco per me. Nelle basi vita quell’anno c’erano settecento-ottocento persone, e tutti mi chiedevano come stessi. Per me era diventato un allenamento mentale, un gioco che teneva occupata la mente e non mi faceva pensare alla fatica.
Prima di arrivare alle basi vita pensavo già a cosa dire alla gente, mi preparavo in anticipo le domandine da fare in risposta alle loro di domande.